Double Trouble: l’originalità dove non credevo di trovarla

Qualche sera fa mi è capitato di sentire un tributo a Bob Marley. No, non chiudete la pagina, prometto che vi parlerò di qualcosa di diverso dal solito concerto reggae, pieno di “say eeeehh, say ooooohh”,
con sigarette truccate che spuntano da ogni dove e con giovincelli di 15 anni che aspettano il momento di No Woman No Cry per cantare. Vi racconterò invece di un concerto messo in piedi con maestria da Raphael, cantante degli Eazy Skankers, che canta molto bene e rapisce gli occhi e le brame delle femminucce in sala, Zibba, cantautore con una voce che solo anni di tabagismo coltivato con amore e dedizione possono levigare così bene, e Bunna, cantante, per ora chitarrista, autore dei testi, fondatore e chissà cos’altro degli Africa Unite, autorità assolute e numi tutelari del Reggae italico. Fino a qui, direte voi, poco di originale, a parte il fatto che in mezzo a due cantanti reggae ci sia un cantautore… e gli strumenti dove saranno mai?
È qui che viene il bello: Zibba, seduto sulla cassa di un amplificatore, possiede, tra mani e piedi, tutti gli strumenti necessari, ovvero le sue dita su una chitarra –non è UNA chitarra, è una Telecaster, quindi ci vorrebbe più rispetto, lo so-, un octaver, un wha e un pedale per fare dei loop. Detta così non è molto interessante, lo ammetto, quindi procediamo con ordine. 
Il tutto inizia con il giro di basso, suonato con la chitarra con un effetto particolare –l’octaver-, che abbassa le frequenze; questo giro viene registrato e mandato in loop, affinché accompagni per tutta la canzone. Dopodiché vengono suonate, registrate e messe in loop le parti di chitarra ritmica e solista. Per dare l’effetto delle percussioni viene battuta la mano sui pickup della chitarra e ripetuto anche questo. Il risultato è un brano con tutte le parti, fatto talmente bene che all’inizio sembra che stia suonando con delle basi.
Oltre a questa chicca di capacità musicali ci sono le voci di Bunna e di Raphael, che sembrano modellate apposta per cantare la selezione di canzoni di Marley non esclusivamente composta da singoli superconosciuti –three little birds assente, ad esempio, mentre c’è them crazy baldheads- a cui ogni tanto ci attaccano anche delle canzoni degli Africa Unite che stanno bene su ritmica e accordi. Bello sul momento, ma a pensarci bene è una dimostrazione abbastanza palese del fatto che il reggae è un tantinello ripetitivo.
La sensazione durante il concerto era di qualcosa di altamente inflazionato –soprattutto se si considera che questo era l’anno del trentennale dalla morte di Marley-, ma, al di là delle oggettive capacità canore dei vocalist, c’era la bellezza di sentire questi pezzi in una forma nuova seppur non così differente dall’originale, che attirava perché sembrava impossibile che tutti quei suoni, combinati così bene, potessero arrivare solo da una persona con uno strumento. Chapeau.

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